lunedì 1 giugno 2015

La guerra sconosciuta: Marina Raskova e le Streghe della notte

Marina Raskova con alcune ragazze del reggimento

Streghe della notte: venivano chiamate così dall'esercito nemico tedesco le squadriglie del reggimento femminile russo composte da sole donne e nate grazie al grande spirito patriottico ed alla tenacia di Marina Raskova, insignita dell'onorificenza di Eroina dell’Unione Sovietica per aver effettuato a bordo del suo  Sukhoi ANT-37bis denominato “Rodina” (Madrepatria) una leggendaria trasvolata, senza scali, di 6450 km da Mosca a Komsomolsk all'estrema punta orientale della Siberia, superando gli Urali ed impiegando in totale 26 ore e 29 minuti.1 Ad essere soprannominato così fu, in particolare, il 588° Reggimento bombardamento notturno sovietico, più tardi ribattezzato col titolo onorifico di 46° Reggimento guardie di Taman di bombardamento leggero notturno, creato, come accennato sopra, grazie all’iniziativa di Marina Raskova e comandato dal maggiore Evdokija Beršanskaja.2

Il nomignolo “Streghe della notte” (die Nachthexen, in tedesco) fu dato a questa squadriglia dai piloti nazisti dello Jagdgeschwader JG 52, l'unità d'elite tedesca, una delle migliori della seconda guerra mondiale, capace di ottenere più di diecimila vittorie aree nella sua storia, e che non riuscivano a credere che delle donne potessero essere delle così abili aviatrici ed andare a bombardare nottetempo con ogni tipo di condizione atmosferica il loro aerodromo e le loro basi aeree. Esse incutevano ai tedeschi un vero e proprio terrore, nonostante l'uso di aerei lenti, poco equipaggiati ed obsoleti, soprattutto il Polikarpov U-2, un biplano di legno e tela usato prima della guerra per gli addestramenti e le irrigazioni in agricoltura.3 Esso era, tuttavia, estremamente manovrabile ed i suoi piloti donne sfruttarono proprio questa manovrabilità per sfuggire ai piloti tedeschi, i quali molto difficilmente riuscivano ad abbatterli, e furono utilizzati per effettuare raid notturni veloci e letali. A tal proposito il comandante tedesco Johannes Steinhoff scrisse in una nota del 1942 a proposito del 588º Reggimento: «Non ci capacitiamo del fatto che i piloti sovietici che ci stanno dando i più grossi problemi siano donne. Non temono nulla, vengono di notte a tormentarci con i loro obsoleti biplani e non ci fanno chiudere occhio per molte notti».4

A questo punto appare necessario capire chi era Marina Raskova e come sviluppò la proposta di creazione del leggendario Reggimento delle Streghe della notte che scrisse indissolubilmente il suo nome nel grande libro della storia russa della seconda guerra mondiale. Marina Raskova nacque come Marina Michajlovna Malinina a Mosca nel 1912 da una famiglia appartenente alla classe media. Suo padre Michail Malinin era un cantante d'opera e maestro di canto, mentre sua madre, Anna Liubatovich, era un'insegnante. A dispetto della sua futura professione, durante la giovinezza la piccola Marina non mostrò alcun interesse per l'aviazione bensì per altre discipline come la musica (imparò a suonare il pianoforte), le lingue (parlava anche fluentemente l’italiano ed il francese) e la chimica. Solo in un secondo momento cominciò a sviluppare la passione per l'arte militare e la sua entrata in aviazione avvenne quasi per puro caso.5 Infatti, dopo aver perso il padre in tenera età a causa delle ferite riportate a seguito di un incidente, Marina, per dare un sostegno economico alla famiglia, abbandonò gli studi di canto per intraprendere quelli di chimica presso una scuola superiore, dove si diplomò nel 1929. Subito dopo il diploma, lo stesso anno, fu assunta in una fabbrica di produzione di vernici e sposò l'ingegnere Sergej Raskov, dal quale prese il cognome e dal quale ebbe la figlia Tanja nel 1930. Il matrimonio fra Sergej e Marina terminò nel 1935 quando i due decisero di divorziare. Nel 1931 la Raskova entrò a far parte dell'Accademia dell'aviazione militare sovietica "Žukovskij" come tecnico di laboratorio.6 Negli anni seguenti divenne un'abile pilota dell'aviazione sovietica, prima donna aviatrice della SSSR (la forza aerea dell’URSS). Inoltre fu anche la prima donna ad insegnare presso l'Accademia Aerea Žukovskij, di cui era stata allieva in precedenza. Durante questo periodo di insegnamento, Marina Raskova cominciò ad essere conosciuta in tutto il territorio dell'Unione grazie ad una serie di record di distanze che ella raggiunse fra il 1937 ed il 1938. Il culmine fu toccato tra il 24 ed 25 settembre 1938 quando compì la traversata da Mosca a Komsomolsk che gli valse il titolo di Eroina dell'Unione Sovietica e che le permise di raggiungere un altissimo status di celebrità in patria.7

La capostipite delle donne pilota sovietiche, ormai celebre in tutta l'Unione, comincio a maturare l’idea di creare un reggimento speciale interamente formato da donne avente come fine quello di servire la madrepatria durante la seconda guerra mondiale, quando ricevette molte lettere da ragazze che, affascinate dalle sue imprese, decisero di emularla e di diventare piloti, istruttrici di volo ed aviatrici (nell'URSS tutti potevano ottenere un brevetto di volo gratuitamente).7 All'inizio la sua proposta ricevette una forte opposizione, ma a seguito delle sue insistenze e dell'arrivo di una sfilza di ulteriori lettere di molte giovani donne russe che desideravano servire il proprio paese, fu Stalin in persona ad accettare la proposta ed a concedere l'autorizzazione a formare questo reggimento speciale completamente femminile. Già nell'autunno 1941 iniziò la selezione delle volontarie.8 Marina Raskova era una donna assolutamente straordinaria e lo stesso Stalin ne rimase affascinato. Quando gli portò una valigia piena di quelle lettere di aviatrici ed istruttrici di volo donne che lei aveva ricevuto, lui all'inizio tentennò, poiché temeva che le generazioni future lo avrebbero giudicato male per il sacrificio di tante ragazze, ma la Raskova gli spiegò che se lui non le avesse fatte entrare nelle forze armate, loro avrebbero rubato degli aerei per volare al fronte, cosa che avvenne puntualmente! Alla fine Stalin cedette e autorizzò la creazione di tre reggimenti: il 586° IAP (Istrebitelnyi Aviatsionniy Polk) da caccia; il 587° BAP (Bombardirovochnyi Aviatsionnyi Polk) da bombardamento in picchiata e il 588° NBAP (Nochnoi Bombardirovochnyi Aviatsionnyi Polk) da bombardamento notturno. Fu proprio all'interno di quest'ultimo reggimento che nacque il mito delle “Streghe della notte”.9 Il primo ordine intimato alle ragazze della squadriglia fu quello di tagliarsi i capelli “come i maschi”, facendoli ricadere davanti solo “fino a metà orecchio”. Le trecce potevano essere conservate unicamente dietro un'autorizzazione speciale di Marina Raskova, ma nessuna delle ragazze rivolse mai alla leggendaria aviatrice una dichiarazione così “futile”.10

Il 27 maggio 1942 il reggimento delle “Streghe della notte”, composto da 115 ragazze di età compresa tra i 17 e i 22 anni, raggiunse il fronte dopo un periodo di addestramento intensivo. La prima incursione bellica fu effettuata già il 12 giugno.11 Il 588° fu l’unico reggimento interamente femminile, dal comandante all’ultimo meccanico di aereo ed era equipaggiato con il Polikarpov U-2, un biplano di legno e tela usato prima della guerra in agricoltura. Era un aereo biposto, lentissimo, senza armamento difensivo, senza alcuno strumento per il volo notturno. Questi aerei erano soprannominati scherzosamente “pannocchie” ed avevano, in particolare, una cabina aperta, coperta solamente da una calotta di plexiglas che non solo non era in grado di difendere l'equipaggio dai proiettili ma nemmeno dal forte vento. Non erano forniti di collegamenti radio e volavano a una velocità di 120 chilometri orari ed a una quota di tremila metri. L'unica arma di cui disponevano erano delle pistole TT. I mitragliatori comparvero su questi velivoli solo in seguito, nel 1944.12 Erano sprovvisti di un vano bombe e gli ordigni venivano appesi sotto alla pancia dell'aereo. Molte bombe, il Polikarpov U-2, faceva fatica a sollevarle, ma in compenso colpivano l'obiettivo con estrema precisione. Le ufficiali di rotta tenevano gli ordigni più piccoli sulle proprie ginocchia e li lanciavano con le mani dallo sportello dell'aereo. Le giovani aviatrici volavano di notte, effettuando anche una decina di incursioni a volta. Spegnevano il motore e nel silenzio lanciavano le bombe sul nemico. Trasportavano anche scorte destinate ai partigiani: farmaci, munizioni, generi alimentari, lettere e pacchi postali.13 I soldati tedeschi erano letteralmente terrorizzati dai raid delle Streghe della notte e chi riusciva ad abbattere un “compensato russo”, così come era chiamato dai soldati nazisti il Polikarpov U-2, veniva insignito con la “Croce di ferro” la più alta onorificenza militare del Terzo Reich.14

In genere l'equipaggio del 588° reggimento, rinominato 46° Reggimento guardie di Taman a partire dal 1943 a seguito di due celebri ed importantissime vittorie sovietiche nella Penisola di Taman, era composto da un'aviatrice e da un'ufficiale di rotta, per lo più studentesse universitarie.15 Tra i personaggi più celebri e maggiormente decorati del 46° Reggimento di Taman si possono ricordare Natalya Meklin, che dopo la guerra divenne giornalista e scrittrice, Ira Sebrova, un ex meccanica in una fabbrica, che svolse oltre 1000 azioni di bombardamento, Mariya Smirnova, Dina Nikulina e l'ex studentessa di astronomia Evgheniya Rudneva, morta durante un bombardamento su Kerch (città della Crimea), ed il cui nome è stato dato ad un asteroide. Tutte loro formarono un gruppo affiatato e speciale: facevano lezione, pubblicavano giornali, scrivevano versi.16 Questa squadriglia era comandata con sagacia e con abilità dal maggiore Evdokija Beršanskaja, unica donna russa ad essere insignita del prestigioso riconoscimento di Cavaliere dell'Ordine di Suvorov.

Il reggimento entrò in azione alla fine del maggio 1942 nel Donetsk, in Ucraina orientale, e contrastò l'avanzata tedesca prima nel Kuban e poi nel Nord del Caucaso. Successivamente combatté i nazisti in Crimea, in Bielorussia, in Polonia ed infine in Germania. Le ultime foto del reggimento ritraggono i Polikarpov in volo sopra il cielo di Berlino, sulla Porta di Brandeburgo.17 Le Streghe della Notte svolsero 23.000 missioni in tre anni, colpendo duramente ponti, nodi ferroviari, stazioni, depositi di munizioni, concentrazioni di soldati, aeroporti nemici. Trentatre aviatrici perirono, durante i combattimenti . Molte di loro ricevettero postume il titolo di Eroine dell’Unione Sovietica, di Eroine della Federazione Russa ed una, Katya Dospanova, del Kazakhistan.18 Il 587° Reggimento, anch'esso fortemente voluto da Marina Raskova, era, invece quello comandato da Valentin Markov, che pur non avendo ricevuto il nomignolo di “Streghe della notte” come il 588° diede un contributo fondamentale nell'economia militare sovietica durante il conflitto bellico ed era specializzato nel bombardamento in picchiata. L'aereo utilizzato dalla squadriglia era un Petlyakov Pe-2, considerato da molti studiosi e storici come uno dei migliori bombardieri della seconda guerra mondiale. Il Petlyakov era un aereo molto veloce e molto difficile da pilotare, solo le ragazze con oltre mille ore di volo vennero destinate a questo reggimento.19 In realtà questa squadriglia avrebbe dovuto avere un aereo biposto, il Sukhoi Su-2, ma la Raskova restò delusa dalle prestazioni di questo aereo, che pilotò a più riprese in passato, e chiese ed ottenne il Petlyakov, che però era molto complesso da mantenere ed, inoltre, le mitragliatrici erano molto dure, richiedevano uno sforzo iniziale di 60 chili, per essere azionate, quindi fu necessario aggiungere degli uomini a questo stormo, che spesso ricoprivano il ruolo di mitraglieri. Marina Raskova morì proprio pilotando uno di questi aerei mentre guidava una pattuglia a Stalingrado: a causa di nuvole molto basse non vide una scarpata e il suo aereo precipitò al suolo, su una delle rive del Volga.20 Il Reggimento da Bombardamento in picchiata (inizialmente denominato 587° BAP ed in seguito 125° GvBAP) sganciò 980 tonnellate di bombe nel corso di 1134 missioni e svolse 4419 missioni di combattimento rivendicando l'abbattimento di 38 aerei nemici durante 125 battaglie aeree.21 Il 587° reggimento iniziò a combattere a Stalingrado, l’odierna Volgograd, nel febbraio 1943, e poi si spostò a sud, contrastando i tedeschi nel Kuban, nel Nord del Caucaso, poi in Bielorussia, in Polonia ed infine nei paesi baltici.22 Il 586° era, invece, un reggimento caccia. La Raskova riuscì ad ottenere per questo reggimento gli Yakovlev Yak-1, i migliori caccia sovietici del tempo, costruiti a Saratov, dove le ragazze si erano addestrate. Anche questo reggimento aveva dei piloti e dei tecnici maschi, in quanto lo Yak era un aereo molto complesso da pilotare e le ragazze avevano avuto un corso troppo breve per essere preparate a dovere. Il comandante era Tamara Kazarinova. Inizialmente questo reggimento venne schierato nelle retrovie, a difesa della città di Saratov e della sua fabbrica di aerei, ma molte ragazze ardevano dal desiderio di andare al fronte. Alla fine, nel settembre 1943, otto di loro vennero mandate a Stalingrado. Tra queste spiccavano Lidya Litvyak e Katya Budanova, le uniche due donne asso nella storia dell’aviazione russa (un asso in aviazione è un pilota che ha abbattuto almeno cinque aerei nemici). Il 13 settembre 1943 proprio Litvyak fu la prima donna pilota ad essere accreditata dell'abbattimento di un aereo nemico, anzi, due: un caccia Messerchmitt Bf109 e un bombardiere Junkers Ju88.23 Il 586° combatté a Voronezh, Kursk, Kiev, Zhitomir ed in Ungheria, a Debrecen ed a Budapest. Spesso i suoi compiti erano quelli di proteggere nodi ferroviari o di scortare personaggi importanti, tra i quali il futuro presidente sovietico Nikita Chruščëv.24

Durante l'arco del conflitto e dopo, molte aviatrici furono insignite di importanti onorificenze tra cui il già ricordato titolo di Cavaliere dell'Ordine di Suvorov e l'ordine della Bandiera Rossa, un altro prestigioso riconoscimento militare dell'Unione Sovietica.25 Tutte queste donne ed in particolare le Streghe della notte celebrarono il Giorno della Vittoria il 9 maggio onorando la memoria delle compagne morte in battaglia e che non avevano avuto la fortuna di vivere insieme a loro quel giorno felice.26 Il patriottismo e l'eroismo di queste donne hanno rappresentato e rappresentano ancora oggi una straordinaria pagina di storia che non va dimenticata.
Filippo Ferraro

1, 12, 21 Anne Noggle - Christine A. White, A Dance with Death: Soviet Airwomen in World War II, 1993.
2 Reina Pennington, Wings, Women & War: Soviet Airwomen in World War II Combat, 2001.
3, 4, 8 Gian Piero Milanetti, Le Streghe della Notte: La storia non detta delle eroiche ragazze-pilota dell'Unione Sovietica nella Grande Guerra Patriottica, 2011.
5, 16, 23, 25 Kazimiera Janina, Women in War and Resistance. Selected Biographies of Soviet Women Soldiers, 1998.
6, 13, 14, 17, 22, 24 Henry Sakaida - Christa Hook, Heroines of the Soviet Union: 1941-45, 2003.
7, 9, 20 Gian Piero Milanetti, Soviet Airwomen of the Great Patriotic War. A pictorial history, 2013.
10 Marina Rossi, Le Streghe della notte. Storia e testimonianza dell'aviazione al femminile in URSS. 1941-1945, 2003.
11 Robyn Dixon, Day of Glory for USSR's Night Witches, 2001.
15, 26 Harold Stockton - Dariusz Tyminski - Christer Bergström, Marina Raskova et les femmes pilotes soviétiques durant la guerre 1939-45, 2009.
19 Mike Wright, What They Didn't Teach You About World War II, 1998.

giovedì 28 maggio 2015

L'ideologia Juche: la base della politica statale nordcoreana

Torre Juche a Pyongyang

L'ideologia Juche è un tipo di teoria filosofico-politica creata e diffusa dall'ex leader nordcoreano Kim Il-sung secondo la quale le masse sono, sostanzialmente, le principali protagoniste della rivoluzione, della costruzione e dello sviluppo del paese.1 Questa teoria è diventata ufficialmente l'ideologia statale autarchica della Repubblica Democratica e Popolare di Corea (DPRK) nel 1972, sebbene già nel ventennio compreso fra il 1950 ed il 1970 Kim Il-sung e gli altri teorici del Partito dei Lavoratori che governa la Nord Corea, tra cui spicca la figura di Hwang Jang-yop, avessero elaborato la dottrina Juche, la quale è composta da una serie di linee guida che sono state utilizzate, in quegli anni, dal governo nordcoreano per giustificare le proprie decisioni di politica domestica ed estera. Tra le più importanti ci sono l'indipendenza politica e militare e l'autosufficienza economica.2

Juche è una parola di origine sino-coreana che è molto difficile da tradurre. Sebbene molti studiosi, scienziati politici e linguisti abbiano cercato di descriverla in termini di indipendenza, autonomia e autosufficienza il suo significato è molto più sfumato, profondo e complesso.3 È stato lo stesso leader Kim Il-sung in un discorso del 1972 a fugare ogni dubbio ed a spiegare che cosa si intende per Juche: «Stabilire lo Juche significa, in parole povere, essere i protagonisti della rivoluzione e della ricostruzione del proprio paese. Ciò vuol dire mantenere una salda posizione di indipendenza, rifiutare la dipendenza dagli altri, contare sulle nostre proprie forze, credere nella nostra forza, avere fiducia in noi stessi, mostrare lo spirito rivoluzionario dell'autosufficienza, e, quindi, risolvere da soli i nostri problemi ed assumerci le nostre proprie responsabilità in ogni circostanza».4

Il governo della DPRK sostiene che l'ideologia Juche è una reinterpretazione creativa da parte di Kim Il-sung dei principi marxisti-leninisti per adattarli al meglio alla realtà politica della Repubblica nordcoreana. Kim Il-sung e suo figlio e successore a capo della nazione Kim Jong-il hanno, con successo, assurto l'ideologia Juche a principale punto di riferimento politico nazionale per evocare nel popolo nordcoreano un fiero orgoglio nazionalistico, considerato come il propulsore dell'indipendenza statale ed il mezzo necessario per portare avanti le politiche di autosufficienza e sacrificio, anche in periodi particolarmente difficili come la carestia e la stagnazione economica.5 Il primo riferimento all'ideologia Juche come base della politica autarchica nordcoreana è avvenuto in un discorso del 1955 tenuto dall'allora leader Kim Il-sung. Le testuali parole del “grande leader”, così come chiamato dal popolo nordcoreano, furono: «Per poter fare la rivoluzione in Corea dobbiamo conoscere la storia e la geografia coreana così come i costumi e le tradizioni del popolo coreano. Solamente allora potrà essere possibile istruire il nostro popolo nel modo migliore per soddisfarlo ed infondere in esso un ardente amore per il suo luogo natio e la sua terra madre».6

La politica Juche si basa su tre pilastri fondamentali:
  • Chaju: Indipendenza interna ed esterna;
  • Charip: Indipendenza economica;
  • Chawi: Indipendenza militare ed autodifesa.

Questi tre principi sono stati sottolineati ed enfatizzati dal leader Kim Il-sung in due famosi discorsi di fronte alla Suprema Assemblea del Popolo, rispettivamente quello del 14 Aprile 1965 dal titolo “La Costruzione socialista e la rivoluzione sudcoreana nella Repubblica Democratica e Popolare di Corea” e quello del 16 Dicembre 1967 intitolato “Lasciateci difendere lo spirito rivoluzionario di indipendenza, autosufficienza ed autodifesa fondamentalmente in tutti i settori delle attività statali”. In particolare, in quest'ultimo discorso il leader nordcoreano ha dichiarato: «il governo della Repubblica implementerà tutte le misure necessarie per soddisfare i requisiti di indipendenza, autosufficienza ed autodifesa al fine di consolidare l'indipendenza politica del paese (chaju), per costruire fondamenta più solide di una economia nazionale indipendente capace di assicurare la completa unità, indipendenza e prosperità della nazione (charip) e per aumentare le funzionalità di difesa dello Stato, così da salvaguardare la sicurezza della terra madre grazie alle nostre uniche forze (chawi), misure che incarnano, splendidamente, l'ideologia Juche del nostro partito in tutti gli ambiti e settori».7

Il chaju, ossia l'indipendenza politica sia all'interno dei confini nazionali che in tema di politica estera è uno dei tasselli portanti dell'ideologia Juche. Con riguardo alle relazioni internazionali, il chaju intende sottolineare l'importanza di una totale eguaglianza e di un rispetto reciproco fra le nazioni. Questo principio, inoltre, mette in evidenza il fatto che ogni Stato ha il diritto di autodeterminarsi al fine di assicurare la felicità e la prosperità al suo popolo nel miglior modo possibile. Ciò ha contribuito a limitare notevolmente la cooperazione con poteri ed organismi esterni alla nazione. Infatti, secondo l'interpretazione statale dello Juche, cedere alle pressioni esterne o tollerare interventi da parte di organismi esteri renderebbe impossibile mantenere il chaju, o difendere la propria indipendenza nazionale e la propria sovranità. Ciò, a sua volta, minaccerebbe la capacità della nazione di difendere gli interessi del popolo, in quanto l'indipendenza politica è considerata un elemento assolutamente fondamentale per l'autosufficienza economica e l'autodifesa militare.8 Kim Jong-il ha annunciato che la dipendenza da poteri esteri condurrebbe al fallimento della rivoluzione socialista in Corea. Suo padre Kim Il-sung, tuttavia, ha sottolineato l'importanza della cooperazione e del supporto reciproco nei confronti di paesi considerati “pari socialisti” come la Cina, l'Unione Sovietica, Cuba ed alcuni paesi africani.9 Egli ha anche affermato che il successo del suo regime è stato possibile grazie al modo indipendente in cui sono stati risolti i problemi, attraverso l'adattamento dei principi marxisti-leninisti alle specifiche condizioni della Repubblica Democratica e Popolare di Corea. Secondo la sua visione, costruire forze politiche interne per mantenere il chaju era ed è una condizione imperativa.10 Il fattore cruciale per raggiungere il chaju è il modo in cui il popolo si stringe attorno al partito, ai suoi principi ed alla figura del capo: Kim Il-sung prima, Kim Jong-il dopo, Kim Jong-un adesso. L'unità del popolo nordcoreano è uno degli elementi caratterizzanti di questo sistema che, spesso, si manifesta con imponenti parate e spettacolari eventi pubblici.

Per charip si intende, invece, l'indipendenza economica. Secondo la dottrina politica nordcoreana un'economia indipendente ed autosufficiente è necessaria sia per assicurare l'integrità politica sia per raggiungere un certo livello di prosperità nazionale. Il charip è visto come la base materiale su cui poggia il chaju, cioè l'indipendenza politica. Infatti, Kim Il-sung temeva che la dipendenza economica da aiuti esterni avrebbe reso lo stato un satellite politico di altri paesi e credeva che sarebbe stato impossibile costruire con successo una repubblica socialista senza le fondamenta tecniche e materiali provenienti da un'economia nazionale indipendente. Questa economia sarebbe costituita, secondo lui, da una potente base di industria pesante, con l'industria di costruzione dei macchinari a farla da padrone. Ciò avrebbe permesso di equipaggiare l'industria leggera, l'agricoltura, i trasporti e tutte le altre branche dell'economia.11 Quindi, secondo l'ideologia politica nordcoreana, costruire un'economia nazionale indipendente significa costruire un'economia che è libera dalla dipendenza dagli altri e che è in grado di reggersi da sola; un'economia che serve il suo popolo, che si basa sulle proprie risorse e sugli sforzi ed il lavoro dei suoi abitanti.12 Per dirla in un'unica parola: autarchia. La produzione indipendente di cibo è considerata particolarmente significativa in quanto un'agricoltura di successo permetterebbe alle persone di avere condizioni di vita stabili e di autosostentarsi. Altrettanto importante per la sopravvivenza e l'indipendenza dell'economia nazionale è stata la creazione di fonti affidabili ed indipendenti di materie prime e combustibili.13 L'ampia modernizzazione dell'economia e la formazione di dirigenti e personale altamente qualificato è stato un fattore ugualmente indispensabile per la costruzione di un'economia nazionale indipendente. Kim Il-sung è stato abile a mantenere un charip basato sul principio Juche dell'autosufficienza, che, tuttavia, non è sinonimo di un'economia chiusa ed isolata. Lo stato ha, infatti, incoraggiato lo sviluppo di una cooperazione tecnica ed economica con altri paesi socialisti, comunisti ed emergenti legati ed accomunati da un'unità ideologica.14

L'ultimo pilastro su cui è costruita l'ideologia Juche e, di conseguenza, la politica nordcoreana è il chawi, vale a dire l'indipendenza militare. Esso è un fattore strettamente correlato con un altro grande principio che regge la struttura politica del paese asiatico: il Songun, considerato la base della politica militare della Nord Corea. Poiché la dottrina militare è retta per lo più dall'ideologia Songun il chawi è visto, sostanzialmente, come l'insieme di regole che devono essere implementate al fine di costruire un sistema di difesa autosufficiente, che implica la mobilitazione dell'intero paese e la diffusione dell'ideologia Juche nelle forze armate. Ciò, insieme alla dottrina Songun, si esplica in una serie di manifestazioni e parate militari che coinvolgono soldati e civili. Ogni cittadino nordcoreano, sia uomo che donna, deve infatti dedicare una parte del proprio tempo all'esercito o all'espletamento di qualche attività militare. Coloro che non sono direttamente chiamati alle armi contribuiscono attraverso la costruzione ed il mantenimento dell'industria domestica di difesa e sicurezza e rimangono ideologicamente preparati così da intervenire in caso di bisogno e di mantenere il fronte interno unito in un senso di superiorità socio-politica. Il chawi è visto anche, secondo le parole di Kim Il-sung, come l'elemento fondamentale per proteggersi dagli «aggressori imperialisti stranieri che mettono in pericolo i principi e la stabilità interna».15 Questo principio è, quindi, volto a preparare il popolo coreano ad affrontare un'eventuale guerra ed a mantenere, di conseguenza, l'indipendenza economica e politica, così da legarsi indissolubilmente agli altri due principi del Juche, ossia chaju charip.

L'importanza dell'ideologia Juche come base politica e principio guida su cui si regge l'intero sistema politico nordcoreano è talmente forte che in suo onore è stata costruita anche una torre a Pyongyang, capitale della Nord Corea, chiamata appunto Torre Juche . Completata nel 1982, sorge sulla riva sinistra del fiume Taedong, esattamente di fronte a piazza Kim Il-sung, sita sulla riva opposta. Venne eretta per commemorare il 70º compleanno di Kim Il-sung e riunisce simbolicamente i principi di autarchia, autosufficienza, patriottismo, tradizionalismo coreano e marxismo-leninismo.16 Alta complessivamente 170 metri, consiste di una guglia alta 150 metri composta da 25.550 blocchi di granito (365 × 70, uno per ogni giorno della vita di Kim Il-sung fino al 70º compleanno) rivestiti in pietra bianca con 70 divisioni e sormontata da una torcia (modellata a forma di fiamma) illuminata internamente, alta 20 metri e pesante 45 tonnellate.17 Nella base della torre vi sono alcune sale in cui saltuariamente installazioni video illustrano l'importanza ideologica della torre.18 La Torre Juche è la seconda più alta colonna monumentale al mondo, dopo il San Jacinto Monument in Texas, 2.9 metri più alto. Oltre alla torre, l'area del monumento ospita anche una statua di 30 metri raffigurante tre persone: una con un martello, una con una falce e una con un pennello da calligrafia a rappresentare le categorie degli operai, dei contadini e degli intellettuali, analoga alla Statua dell'Operaio e della Kolchoziana che si trova a Mosca. I tre strumenti formano l'emblema del Partito dei Lavoratori di Corea. Vi sono inoltre altri sei gruppi di sculture, alti 10 metri, che simbolizzano altri aspetti dell'ideologia di Kim Il-sung. Infine, accanto alla torre, una parete ospita 82 placche di amicizia donate da sostenitori stranieri.

Filippo Ferraro

1, 6 Bruce Cumings, Korea's Place in the Sun: A Modern History, 1997.
2 Don Oberdorfer, The Two Korea, 1997.
3 Felix Abt, A Capitalist in North Korea: My Seven Years in the Hermit Kingdom, 2014.
4, 7, 9, 10, 11, 15 Yuk-sa Li, Juche! The Speeches and Writings of Kim Il Sung, 1972.
5 Tai-sung An, North Korea in Transition: From Dictatorship to Dynasty, 1983.
8, 12, 13, 14 Jong-il Kim, Accomplishing Juche Revolutionary Cause, 1990.
16, 17, 18 Martin K. Bradly, Under The Loving Care of The Fatherly Leader, 2004.
N.B. In relazione alle note 4, 6 e 7 le traduzioni sono ad opera dell'autore dell'articolo.

sabato 16 maggio 2015

Un ritratto di Sergej Šojgu, il generale venuto dalla Siberia

Sergej Kužugetovič Šojgu

Tra gli esponenti del mondo politico russo forse esiste solo un uomo dotato di un indice di popolarità prossimo a quello del presidente Vladimir Putin. È il ministro della difesa Sergej Šojgu, la cui ormai longeva carriera negli apparati governativi della Federazione Russa appare immune da crisi di credibilità ed insuccessi, tanto da far presagire per quest'uomo arrivato dal cuore della Siberia un futuro non meno prestigioso. Vale quindi la pena ripercorrere le tappe della vita e dell'impegno pubblico di un tale personaggio, decorato con l'onorificenza di “Eroe della Federazione Russa” nel 1999, il quale già dal nome e dal volto evoca la complessità di un paese che fa da ponte tra due continenti.

Sergej Šojgu è nato il 21 maggio del 1955 a Čadan, cittadina dell'odierna repubblica autonoma di Tuva, regione al confine con la Mongolia. Figlio del mongolo-tuvano Kužuget Šojgu – discendente di pastori nomadi con una carriera da funzionario locale di partito – e della russa etnica Aleksandra Kudrjavceva – impiegata del ministero tuvano dell'agricoltura , il giovane Sergej studiò presso l'Istituto Politecnico di Krasnojarsk, dove conseguì la laurea in ingegneria civile nel 1977. Nello stesso anno raggiunse il grado di tenente dell'esercito, prima tappa di una lunga scalata che lo condurrà a divenire generale d'armata nel 2003. Tesserato al PCUS al pari dei genitori e dei suoceri, Šojgu lavorò nell'ambito della burocrazia di varie località della Siberia fino al 1990, quando si trasferì a Mosca diventando vicepresidente del Comitato Sovietico per l'architettura e le costruzioni. L'anno seguente ricevette gli incarichi di capo del corpo dei soccorritori e poi di presidente del Comitato per le situazioni d'emergenza di quella che stava ormai per divenire l'odierna Federazione Russa. Questo nuovo comitato rispondeva alla necessità di modernizzare e rendere più efficiente il sistema di risposta ai disastri e alle emergenze, poiché esso aveva dimostrato varie problematiche e lacune (si pensi alla gestione del dopo Černobyl').1 Per Šojgu la nomina rappresentò una vera e propria svolta professionale e politica, investendolo di compiti spazianti dai disastri naturali alle conseguenze degli attacchi terroristici.2

Nei tumultuosi anni a cavallo tra la fine dell'Unione Sovietica ed il consolidamento del potere eltsiniano Šojgu si schierò contro i tentativi di restaurazione del sistema comunista, dimostrandosi leale verso le autorità governative. Da presidente del Comitato per le situazioni d'emergenza giocò un ruolo importante nella difesa della Casa Bianca di Mosca durante i giorni del tentato Putsch di agosto” del 1991.3 Impegno che gli valse la medaglia di “Difensore della Russia libera” nel 1993, stesso anno di una nuova grave crisi costituzionale culminata nel bombardamento della Casa Bianca (allora sede del parlamento) per ordine del presidente El'cin. Nei primi anni novanta a Šojgu fu affidata anche la gestione delle emergenze legate alle tensioni inter-etniche nel Caucaso (prima guerra osseto-georgiana e poi questione cecena). Nel gennaio del 1994 il Comitato per le situazioni d'emergenza fu trasformato in ministero (noto come EMERCOM). Entrando ufficialmente nella compagine governativa Šojgu andò acquisendo una visibilità mediatica via via crescente. Nel 1995 l'uomo venuto da Tuva decise di aderire alla nuova formazione di centrodestra La Nostra Casa – Russia”, fondata dall'allora primo ministro Viktor Černomyrdin ed avente tra i suoi dirigenti un ancora poco noto Vladimir Putin.4 Šojgu ed il suo ministero si guadagnarono ben presto la fiducia e la stima della popolazione. Impegnato sui fronti più disparati – dalla gestione degli aiuti umanitari in ex Jugoslavia all'evacuazione dei cittadini russi nelle zone a rischio del mondo, dal soccorso post-calamità naturali alle attività umanitarie in Cecenia – l'EMERCOM si distinse come uno dei pochi organismi istituzionali funzionanti e credibili nel disastrato periodo dei torbidi” eltsiniano. Di conseguenza la popolarità di Šojgu crebbe a vista d'occhio, tanto che nel 1998 il celebre cineasta Nikita Michalkov gli dedicò un apologetico documentario dal titolo General Kužugetyč”.5 In controtendenza rispetto a gran parte del blocco di potere gravitante attorno a El'cin, Šojgu uscì politicamente indenne dalla catastrofe socio-economica di quegli anni di cleptocrazia anarchica.

Il 1999 rappresenta uno spartiacque importante nella recente storia russa. Nell'agosto di quell'anno l'ex direttore del FSB Vladimir Putin fu nominato primo ministro. Da quel momento inizierà un lento e progressivo percorso di ricostruzione nazionale destinato a segnare gli ultimi quindici anni e non ancora terminato. Poco dopo la nomina di Putin, a supporto del futuro presidente della Federazione Russa, nacque il movimento Unità”, la cui guida fu affidata al popolare ministro delle situazioni d'emergenza, da poche settimane decorato con la prestigiosa onorificenza di “Eroe della Federazione Russa”. Nel dicembre del 2001 Šojgu, insieme al sindaco di Mosca Lužkov ed al presidente del Tatarstan Šajmiev, fu tra i protagonisti della fusione partitica da cui scaturì l'attuale formazione governativa, Russia Unita”.6 Nel quindicennio putiniano si è sempre più consolidata l'intesa personale e politica tra il presidente ed il generale siberiano. Un'intesa passata anche attraverso i tragici momenti della crisi cecena e degli attacchi terroristici dell'islamismo radicale in giro per la Russia.7 Šojgu ha continuato a mantenere l'incarico di ministro per le situazioni d'emergenza fino al maggio 2012, quando è stato chiamato a ricoprire la delicata posizione di governatore dell'oblast' di Mosca. Impegno però durato appena qualche mese, cioè fino all'assunzione dell'incarico di ministro della difesa avvenuta il 6 novembre 2012.

La nomina del generale Šojgu al posto di Anatolij Serdjukov è stata interpretata in vari modi, ma è probabile che sulla decisione abbia influito una concatenazione di fattori che spaziano dal problema della corruzione alle incertezze sulla riforma dell'esercito, dalla scarsa esperienza militare dell'ex ministro a pettegolezzi sulla sua vita privata. L'arrivo del popolarissimo Šojgu al ministero della difesa non ha comunque condotto all'abbandono degli obiettivi di modernizzazione delle Forze Armate a cui aveva lavorato Serdjukov.8 Nei due anni e mezzo da ministro della difesa Šojgu ha più volte comandato esercitazioni militari di grande portata per testare la prontezza e la preparazione dell'esercito. In questo periodo non sono infatti mancati i momenti di tensione internazionale che hanno visto coinvolta la Russia: basti pensare alla minaccia d'intervento statunitense in Siria nel 2013 o al lacerante conflitto in Ucraina orientale. In pratica, pur non intaccando i presupposti della riforma di Serdjukov, Šojgu ha imposto uno stile radicalmente diverso da quello del suo predecessore. Da militare gode di un rapporto privilegiato con gli uomini delle Forze Armate che in precedenza mancava.9 Oltre a ciò Šojgu si distingue per un maggiore attivismo internazionale, teso soprattutto a rafforzare la collaborazione militare con paesi come Cuba, Venezuela e Vietnam. A caratterizzare il nuovo corso ministeriale è anche l'attenzione ai particolari simbolici ed alle tradizioni: Šojgu ha infatti reintrodotto l'usanza della partecipazione dei cadetti delle scuole Suvorov e Nachimov alla parata del 9 maggio, ricostituito le storiche divisioni Tamanskaja e Kantemirovskaja, predisposto misure volte a stimolare il patriottismo nelle caserme e imposto l'obbligo dell'uniforme per il personale del ministero. Tutti interventi in linea con il terzo mandato presidenziale di Vladimir Putin, contraddistinto da una maggiore enfasi sui valori patriottici e tradizionali.

Il generale ha inoltre manifestato l'intenzione di rafforzare la collaborazione tra le Forze Armate e la Chiesa ortodossa russa, auspicando il ripristino di relazioni simili a quelle intrattenute da esercito e clero nella Russia pre-rivoluzionaria.10 Il rapporto tra Šojgu e la religione ha peraltro suscitato notevole curiosità, soprattutto dopo la recente parata del 9 maggio scorso. In quell'occasione infatti il ministro ha stupito molti facendo un pubblico segno della croce sotto l'icona di Cristo che adorna la Torre del Salvatore del Cremlino. In realtà Šojgu ha solo restaurato un'antica tradizione venuta meno a causa delle politiche antireligiose perseguite ai tempi dell'URSS (che avevano condotto persino all'occultamento della sacra icona di Gesù). Quello di Šojgu è apparso come un gesto dalla forte carica simbolica per molteplici ragioni. In primo luogo per la sua novità: nessuno tra i suoi predecessori aveva realizzato tale gesto all'inizio della grande parata che celebra la vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale; in secondo luogo perché cozza in maniera radicale con il laicismo sempre più diffuso in Occidente, rappresentando un ulteriore segno di alterità della Russia rispetto ai paesi euro-atlantici; in terzo luogo perché ha destato sorpresa che il segno dell'appartenenza alla fede cristiana sia stato fatto proprio così solennemente da un tuvano. L'origine paterna del ministro ha infatti alimentato per lungo tempo la certezza della sua adesione al buddhismo tibetano, religione tradizionale di Tuva insieme allo sciamanesimo. In realtà, già nel 2003, in occasione del conferimento di una prestigiosa onorificenza serbo-ortodossa, fu lo stesso Šojgu a dichiarare di essere stato battezzato all'età di cinque anni a Stachanov, località dell'odierna Ucraina orientale in cui viveva la sua famiglia materna.11 Il ministro peraltro è solito partecipare al tradizionale rituale del bagno nell'acqua gelata in occasione dell'Epifania e nel 2012 si è recato in visita ufficiale presso il Monastero della Trinità di San Sergio, cuore dell'ortodossia russa. Al tempo stesso egli mantiene comunque relazioni molto strette con i religiosi buddhisti della sua terra d'origine e con la tradizione da essi rappresentata. Il rapporto di Šojgu con la sfera religiosa è quindi ricco e complesso come ricco e complesso è il panorama spirituale della Russia. Ciò che risulta evidente è la forte attenzione del ministro della difesa russo per l'aspetto religioso della vita umana.

In definitiva, Sergej Šojgu è uno dei personaggi del panorama politico russo da tenere in maggiore considerazione anche per il futuro. Infatti il suo rapporto privilegiato con Vladimir Putin, la conoscenza delle autorità locali con cui ha lavorato a stretto contatto per oltre vent'anni, i legami con la Chiesa ortodossa russa e le Forze Armate, la credibilità di cui gode presso l'opinione pubblica e l'immagine eroica che ormai si porta cucita addosso lo rendono un probabile protagonista di prima grandezza anche nei prossimi anni.

Fabio Petrucci

1, 2, 3, 5, 7 Ray Finch, Sergey Shoygu: Russia’s Emergency Defense Minister. A Bio-Sketch, 2013.
4 Charles J. Shields, Vladimir Putin, 2006.
6 Sean P. Roberts, Putin's United Russia Party, 2012.
8 Theodore Karasik, Putin and Shoigu: Reversing Russia's Decline, 2000.
9 Dmitry Gorenburg, The Russian Military under Sergei Shoigu: Will the Reform Continue?, 2013.

martedì 12 maggio 2015

Mamaev Kurgan tra mito e memoria

Statua della Madre Russia a Mamaev Kurgan

In Russia c'è un luogo che meglio di altri simboleggia l'immane sacrificio di sangue del popolo russo durante la Grande Guerra Patriottica. È il luogo simbolo della straordinaria forza di volontà delle genti di Russia. È il luogo del martirio e della vittoria. Sovrasta la città in cui si consumò la più grande battaglia di terra della storia dell'umanità, vero momento di svolta nella tragedia della seconda guerra mondiale. È la collina di Mamaev Kurgan che domina sulla città che dal 1961 è chiamata Volgograd, da quando cioè, sull'onda del rinnovamento chruscioviano, fu privata della denominazione con la quale aveva vissuto le proprie giornate più drammatiche ed eroiche: Stalingrado.

La collina di Mamaev Kurgan ha una storia che merita di essere raccontata. Luogo simbolo dell'epopea bellica sovietica e sede di uno dei più colossali e suggestivi memoriali militari del mondo, già nel nome evoca la pluralità di miti e civiltà che caratterizza la Russia. Un antico proverbio recita: «gratta un russo e ci troverai un tartaro1», a testimonianza dello strano rapporto di compenetrazione tra l'elemento slavo e l'elemento turanico nel carattere nazionale della Russia. E sul nome della collina è sorta una leggenda che, benché probabilmente inattendibile, richiama questa circostanza. Il termine “kurgan”, di probabile origine turca, indica infatti un particolare tipo di tumulo funerario diffuso nell'immensa steppa eurasiatica e tipico delle popolazioni nomadi che sin dall'antichità hanno abitato quei luoghi (sciti, sarmati, unni, tribù turche, ecc).2 La collina di Mamaev Kurgan (traducibile come “Tumulo di Mamaj”) sarebbe così chiamata in associazione alla figura del condottiero tataro dell'Orda Blu Mamaj, celebre antagonista del principe moscovita Dmitrij Donskoj nell'epica battaglia di Kulikovo e forse avo della madre dello zar Ivan il Terribile, Elena Glinskaja.3 Secondo alcune teorie Mamaj, che rivestiva un ruolo politico e militare di primaria importanza nell'ormai decadente Khanato dell'Orda Blu, installò un avamposto di guardia in cima alla collina, in una posizione strategica, a poche decine di chilometri dalla capitale dell'Orda d'Oro Saraj, una delle più popolose città del Medioevo. La collina poi, in base alla leggenda, avrebbe ospitato le spoglie mortali del condottiero tataro, dando fondamento all'odierno nome del sito.4 Tuttavia, come sostenuto dal pittore Ivan Aivazovskij, è più probabile che Mamaj in realtà sia stato sepolto in Crimea, a poca distanza dal luogo in cui fu ucciso nel 1380 forse dai genovesi o per ordine del khan Toktamish, suo rivale.5 Quello della sepoltura di Mamaj rappresenta peraltro solo il più famoso tra i presunti ed improbabili misteri che coinvolgono la collina e che spaziano dal mito della spada nella roccia dei sarmati alle gesta del re persiano Dario fino all'esoterismo nazista.6

Al tempo della battaglia di Stalingrado Mamaev Kurgan era indicata nelle mappe topografiche militari semplicemente come “Collina 102.0”. Considerata strategicamente importante per via della propria posizione, la collina divenne teatro di uno dei momenti più drammatici della battaglia che avrebbe cambiato gli esiti del conflitto mondiale. Per più di quattro mesi soldati della Wehrmacht e dell'Armata Rossa combatterono atrocemente per il controllo della collina, circondati da una città avvolta da un'atmosfera spettrale. Quando la 6ª Armata tedesca, il 13 settembre 1942, lanciò il proprio attacco al cuore della città, il comando della 62ª Armata sovietica dovette abbandonare la propria postazione sulla collina. Iniziò dunque un susseguirsi di cambi di mano nel controllo di Mamaev Kurgan. Il 16 settembre, grazie ai diecimila uomini della 13ª Divisione di Fanteria guidata dal generale Rodimcev, l'Armata Rossa passò al contrattacco, ma nel marasma di quelle settimane risultava quasi impossibile stabilire chi avesse effettivamente il controllo del sito. Occorrerà aspettare l'offensiva sovietica finale, la cosiddetta “Operazione Anello” iniziata il 10 gennaio 1943, per liberare definitivamente la collina dalla presenza tedesca. A distinguersi particolarmente nella lotta per Mamaev Kurgan vi fu la 284ª Divisione di Fanteria, formata in Siberia e comandata dal colonnello Nikolaj Batjuk, la quale poteva annoverare tra i suoi membri una delle figure più leggendarie della Grande Guerra Patriottica, il micidiale cecchino Vasilij Zajcev, ivi sepolto nel 2006, in prossimità di un monumento che richiama una sua celebre frase: «non c'è terra per noi dietro il Volga».7 Zajcev non è peraltro l'unico personaggio di fama sepolto nel complesso monumentale: Vasilij Čujkov, generale durante la battaglia di Stalingrado, fu sepolto a Mamaev Kurgan nel 1982, primo maresciallo dell'Unione Sovietica a non essere tumulato a Mosca.

L'8 febbraio 1943, a una settimana di distanza dalla fine dei combattimenti per Mamaev Kurgan, i caduti sovietici per la sua difesa furono sepolti sulla collina, dove fu issato un semplice obelisco in legno. A guerra conclusa le autorità sovietiche attribuirono a Stalingrado il titolo di “città eroina”. Poco dopo Stalin ordinò la costruzione di un grande memoriale e di una colossale statua, destinata non solo a rappresentare la personificazione della Madre Russia, ma anche a suggellare in eterno la vittoria che, a dispetto di certa storiografia minimizzatrice, segnò la svolta del secondo conflitto mondiale, arrestando l'avanzata nazista verso gli importantissimi giacimenti petroliferi del Caucaso e gettando nel totale sconforto la Wehrmacht e la gerarchia politica nazista. È infatti storicamente innegabile che l'annichilimento della potente 6ª Armata rappresentò l'inizio della fine per il Terzo Reich.8

Furono molti gli artisti a candidarsi per la realizzazione dell'opera, ma ad essere scelti furono i soli Evgenij Vučetič, scultore di spicco del realismo socialista e già autore del memoriale sovietico di Berlino, e Nikolaj Nikitin, architetto famoso per l'edificio principale dell'Università Statale di Mosca, lo Stadio Lužniki e la torre di Ostankino.9 L'edificazione della Statua della Madre Russia (nota anche con il nome “La Madrepatria chiama!”) iniziò nel maggio del 1959, dopo la ricostruzione della città distrutta durante la guerra. Come fonte d'ispirazione per l'aspetto della Madre Russia fu scelta una semplice ragazza di Stalingrado, la ventiseienne Valentina Izotova, anche se nella fisionomia del corpo sembrano evidenti i richiami alla famosa Nike di Samotracia. La scultura fu inaugurata il 15 ottobre 1967, divenendo la più imponente statua fino a quel momento costruita nel mondo. Alta 85 metri (33 metri solo la spada) e pesante quasi 8.000 tonnellate, la statua della Madre Russia è visibile da ogni punto della città e già dall'espressione del viso richiama allo spirito fiero e sovrano del popolo russo. Lo stesso spirito fiero e sovrano dei quasi 35.000 soldati sovietici sepolti sotto di essa.

Particolare simbolico è costituito dal numero degli scalini che conducono alla scultura: 200 come i giorni della battaglia di Stalingrado. A completare il memoriale vi sono numerosi monumenti in onore del popolo della città. Particolarmente significativi quello al “milite ignoto” armato di kalashnikov e quello alla “madre addolorata” chinata sul figlio morente. In anni recenti, vicino alla grande statua della Madre Russia, è stata anche costruita una chiesa ortodossa dedicata ad Ognissanti, segno di una rinascita religiosa che arricchisce ulteriormente la sacralità del luogo. Per tutto ciò non stupisce che il complesso monumentale di Mamaev Kurgan sia stato nominato tra le sette meraviglie della Russia. Una meraviglia architettonica che è in fondo l'autobiografia in pietra della nazione russa. 
Fabio Petrucci

1 Stanley Stewart, L'impero di Gengis Khan: A cavallo tra i nomadi, 2004.
2 Luigi Luca Cavalli-Sforza, Le radici prime dell'Europa: gli intrecci genetici, linguistici e storici, 2001. 
3 Francis Carr, Ivan the Terrible, 1981.
Elena Hellberg-Hirn, Soil and soul: the symbolic world of russianness, 1998.
5 Virgil Ciociltan, The Mongols and the Black Sea trade in the thirteenth and fourteenth centuries, 2012.
6 Sugli antichi miti legati al luogo: (in russo) Legendy i cokrovisha Mamaeva Kurgana; Sull'esoterismo nazista: (in inglese) Occult mystery Mamaev Kurgan.
7 Joseph Carlson, Snipers and shooters: the kill shot out of nowhere, 2011. 
David Glantz e Jonathan House, Endgame at Stalingrad, 2: december 1942-february 1943, 2014. 
9 David A. Law, Russian civilization, 1975.